28 maggio 2007

Il novizio e il suo maestro

Tutto era iniziato a Settembre, quando frate Anselmo era giunto dalla venerabile abbazia di Nonantola per visitare un anziano confratello, prossimo al suo fortunato incontro con l’Onnipotente. Anselmo era un uomo imponente e venerando. Portava una folta barba, ormai grigia, ed enormi sopracciglia sotto le quali gli occhi sembravano scomparire. Parlava come un filosofo greco e tutti coloro che lo ascoltavano restavano rapiti dal suo carisma.
Gilberto era stato incaricato di assistere Anselmo durante il suo soggiorno. Inizialmente intimidito, il giovane era stato colpito dalla grande umanità e saggezza del frate che, dal canto suo, sembrava apprezzare la compagnia di quel ragazzo intelligente ma ingenuo e acerbo. Così, quando Anselmo aveva chiesto al priore di portare Gilberto con se a Nonantola come suo discepolo, il ragazzo aveva pregato il superiore di acconsentire.
Erano partiti una fragrante mattina di fine settembre e ora, lasciatisi dietro Baioaria, erano a poche ore da Modena, la città che Anselmo voleva mostragli.
“Ti piacerà, vedrai: stanno compiendosi i lavori per una nuova grandiosa cattedrale.”
Gilberto non vedeva l’ora di visitare la fabbrica e non aveva alcuna intenzione di fermarsi.

Giunsero a Modena il sei ottobre 1106, a notte inoltrata. Una densa nebbia inondava la campagna circostante, salendo dai campi e dai canali e dando alla città l’aspetto di un fantasma di pietra.
Mentre si avvicinavano, Gilberto sentiva un lamento provenire dalla mura. Era una sorta di litania ossessiva e triste, un canto di supplica.
Noi adoriamo l’eccelsa santità di Cristo, a lui doniamo i nostri canti di giubilo…Santa Maria, splendida madre del Cristo insieme a san Giovanni ottieni per noi queste cose…Confessore di Cristo, pio servo del signore, o Geminiano, supplica con le preghiere che dal flagello, che pure meriteremmo, possiamo scampare per grazia del Re dei cieli…”
“Cos’è questa litania, maestro?”
“Sono i canti delle scolte della città. Le ronde che presidiano le mura passano la notte invocando la protezione di Cristo, della Vergine e del patrono Geminiano. Cantano per farsi coraggio e non sentire il freddo che penetra i cuori e mina la volontà.”
Quando furono vicini a porta Cittanova, Gilberto vide i soldati, ombre che galleggiavano nella nebbia, ragazzi poco più grandi di lui eppure più adulti, induriti nello sguardo e chiusi nelle loro corazze di cuoio. C’erano anche chierici che montavano la guardia insieme ai militi: tutti salmodiavano quella litania che Gilberto mai avrebbe dimenticato.
Si recarono al monastero di San Pietro, dove c’era anche la Casa ospitale per i pellegrini e gli infermi. Il padre guardiano, un vecchio tarchiato e dal volto antipatico, aprì loro la porta con scortesia, lamentandosi per l’orario. Gilberto crollò addormentato e Anselmo, pur sapendo di venir meno al dovere del maestro, non lo destò per il mattutino.
Il ragazzo si svegliò che il sole era già alto nel cielo, col volto placido di chi ha dormito perfettamente.
“Andiamo” gli disse dolcemente Anselmo, osservandolo in tralice, un po’ divertito. “Oggi vedrai qualcosa che da vecchio potrai raccontare ai tuoi discepoli.”
Dalle prime ore della mattina, centinaia di persone si erano riversate in città dal contado e affollavano i dintorni del Duomo.
La fabbrica della cattedrale era un cantiere enorme. I maestri muratori, carpentieri e decoratori lavoravano senza sosta intorno all’enorme edificio, che sembrava volersi liberare dalle catene in cui le ridotte dimensioni del centro cittadino l’avevano costretto. I mazzuoli e gli scalpelli rimbombavano, gli argani stridevano e tutto l’edificio risuonava di voci concitate.
“Tirate via quell’impalcatura, non vorrete che la Comitissa ci debba passare in mezzo!” gridava uno.
“Ancora un momento.”
“Non lo abbiamo un momento. Tra poco saranno qui. Smonta tutto, dopo ricominceremo.”
“Ci mancava anche questa scocciatura, come se di problemi non ne avessimo già abbastanza! Fare e disfare è tutto un lavorare.”
“Cosa vuoi che ti dica: nobili e preti, gente che non lavora non può preoccuparsi di certe cose...”.
La chiesa era stata costruita partendo contemporaneamente dalla facciata e dai tre absidi. I due tronconi dell’edificio, ormai ultimati, sarebbero stati uniti tra loro non appena demolita la vecchia basilica ad corpus, i cui ruderi sorgevano ancora trasversalmente alla nuova. Sulla mole della basilica svettava la torre civica, a base quadrata, ornata di monofore nel terzo pseudopiano e di una bifora nel quarto, coperta da quattro spioventi di coppi. Gilberto osservò a bocca aperta la vigorosa struttura, ancora incompleta: altissima e possente, con una sola porta nella facciata, sembrava lo sfavillante castello di Dio che lui si immaginava eretto nel punto più alto del Paradiso.
Anselmo guidò Gilberto all’interno della cattedrale, dove la folla era enorme. Il ragazzo ammirò le tre navate e le file di colonne che sembravano una selva di pietra.
“Cosa succede, maestro?”
“Seguimi.”
Il frate portò il suo discepolo verso la cripta, sorretta da decine di colonne con capitelli romani riutilizzati. Un corridoio tra la folla era difeso da uomini armati di bastoni. In mezzo ad esso una bara di pietra conteneva le spoglie di San Geminiano, ivi traslate qualche mese prima. Diciotto cittadini vegliavano amorevolmente sul sepolcro.
“Il Papa!” gridò qualcuno.
Come un’eco quell’esclamazione si propagò tra la folla, che ondeggiò mentre centinaia di teste si voltavano verso l’unica porta della chiesa. Papa Pasquale, entrò nella nuova Cattedrale, accompagnato dalla Comitissa Matilde, dai vescovi, dai cardinali e da tutti i dignitari della città e del contado. Con lui c’erano il vescovo modenese Dodone, da poco insediatosi, e quello reggiano Bonsignore. Il Pontefice tenne un discorso al popolo assiepato al termine del quale concesse la remissione dei peccati mentre tutti i chierici, di ogni ordine e grado, pregavano e cantavano con venerazione. Furono Bonsignore e Lanfranco ad aprire il sarcofago tra la commozione di tutti.
Le spoglie del patrono erano lì. La gente si segnò più volte e salmodiò con gioia e timore, il viso rigato dalle lacrime. Il Papa consacrò l’altare e molti resero omaggio al santo portando doni; Dodone recò un calice con patena mentre la Comitissa Matilde condusse oro, argento e un ricco pallio.
“Amano proprio il loro Santo” mormorò Gilberto.
“Egli ha salvato questa città dalle acque che l’avevano invasa e da Attila in persona, celandola in un’impenetrabile coltre di nebbia. Si è anche recato a Bisanzio dove ha cacciato Satana, esorcizzando la figlia dell’imperatore Gioviano. Anche questa chiesa non ci sarebbe stata senza di lui: erano rimasti senza materiali e il santo ha ispirato l’architetto Lanfranco, che ha rinvenuto qui vicino una necropoli romana, con tutta la pietra necessaria.”
“Un grande cristiano…”
“Non so quante di queste tradizioni siano vere, ma certamente era un fedele che pregava con devozione in tempi difficili e questo già basterebbe a farne un Santo: guarda! Dalla tomba hanno estratto un altarolo portatile di pietra.”
Una lastra di serpentino a grana fine venne sollevata con rispetto affinché tutti la potessero vedere.
“Pregava davanti a quello” disse il novizio con un filo di voce. “Ne faranno di certo una venerata reliquia. Nulla, però, potrà eguagliare la semplicità mistica di quell’altare portatile!”
“Oggi hai imparato la tua prima lezione: Dio è nella devozione, anche la più semplice” commentò Anselmo, guardandolo compiaciuto.
Terminata la messa solenne, restarono nei pressi della fabbrica per parecchio tempo, ammirando la grandezza di Dio espressa nell’ingegno umano. L’edificio era circondato da impalcature piuttosto precarie su cui gli operai si muovevano con maestria: stavano ultimando la copertura del tetto e le decorazioni di contorno. Solo a edificio ultimato gli scultori avrebbero decorato la facciata e lo stipite della porta, secondo i dettami di Wiligelmo.
“Guarda quella metopa” indicò Anselmo con gaiezza, “l’hanno appena ultimata.”
“Sembra un uomo, eppure...” disse Gilberto sforzando la vista.
“Ha attributi femminili!” rise Anselmo.
“Ma è inaudito! Quella è la casa del Signore!”
“Il Signore dimora qui perché il popolo possa adorarlo. Il popolo riconosce e ama queste figure allegoriche: perché, allora non dargli quello che desidera, se questo fa si che si senta più a suo agio avvicinandosi alla sua chiesa?”
“Fatico a capire.”
“Comprenderai. Inoltre, come puoi notare, la maggior parte di queste raffigurazioni è sull’esterno della chiesa: simboleggiano il male e la superstizione che si devono fermare fuori dal Tempio di Dio. Oggi, però, non è giorno di lezioni: dobbiamo divertirci. È un gran momento per questa città.”
Il giorno dopo ripartirono per Nonantola. Gilberto diede un’ultima occhiata nostalgica alla città e alla cattedrale che svettava sulle case del borgo, affiancata dalla strana torre quadrata.

Pochi giorni dopo giunsero a Nonantola, dove per Gilberto iniziò una nuova vita. I primi mesi furono i più belli della sua esistenza. L’abbazia era enorme e ricchissima, con possedimenti in tutta la pianura Padana.
Quando fu ricevuto dall’abate Damiano, che era già piuttosto anziano, il ragazzo era tesissimo: aveva la gola secca e temeva di non riuscire ad articolare bene le parole.
“Benvenuto a Nonantola, figliolo. Fratello Anselmo mi ha parlato molto bene di te. Dice che sei un ottimo amanuense.”
“Fratello Anselmo è troppo buono, padre, ho molto da imparare ma adoro stare nello scriptorium.”
“Posso chiederti perché?”
“Non me lo sono mai chiesto…” rispose Gilberto imbarazzato; poi, temendo di far la figura dello sprovveduto, aggiunse: “Credo sia perché si respira la storia.”
“Spiegati meglio.” Damiano sembrava molto interessato.
Gilberto, sulle spine, ribatté titubante: “Vedete, padre, negli scriptoria e nelle biblioteche noi ricopiamo testi antichi che altrimenti si perderebbero nelle nebbie della storia. I testi sacri, ovviamente, sono i più importanti; anche gli scritti dei grandi pensatori e degli storici pagani, però, sebbene affetti dall’errore, sono testimonianze importantissime…”
“Bravo. Credo sia questo lo spirito giusto. Frate Germano è il bibliotecario dell’abbazia. È un uomo saggio e abile ma, come molti di noi, paga queste virtù con l’età avanzata…”
L’abate sorrise. “Gli serve un aiutante: vorresti essere tu?”
Gilberto avrebbe voluto correre al collo di Damiano per abbracciarlo ma, con grande sforzo, riuscì a mantenere un invidiabile contegno.
“Sarà un onore per me.”

“Padre Anselmo, padre Anselmo!”
“Dimmi.”
“L’abate... vedete, mi ha chiesto…”
“Di diventare aiuto bibliotecario” finì per lui il frate.
“Posso?”
“Non devi chiedere il permesso a me” rise Anselmo.
“Non vedo l’ora di cominciare.”
“Bravo. Ti troverai bene con frate Germano: è un brontolone ma è una brava persona.”
“Non vi deluderò.”
“Lo so. Prima, però, ti porterò a vedere questa abbazia, una delle più potenti e invidiate della Cristianità. L’abate Damiano ha dato inizio alla fabbrica della nuova chiesa di San Silvestro, che per anni è stata danneggiata da incendi, terremoti e incuria. Egli è un uomo di grande fede e rigore, che aderisce pienamente alla riforma cluniacense. È stato lui a portare Nonantola alla causa guelfa.”
La fabbrica era degna di quella vista a Modena, tanto che vi lavoravano anche alcuni allievi di Wiligelmo. Il nuovo edificio aveva tre navate e la facciata di mattoni chiari, alleggerita da una bifora. Gli scalpellini stavano ornando stipiti e architrave del portale con bassorilievi raffiguranti scene sacre e la gloriosa storia abbaziale. All’interno l’edificio era austero, retto da una moltitudine di pesanti pilastri di cotto; un sapiente gioco di finestre proiettava la luce solo sull’altare che costituiva il fulcro visivo della struttura. Il suo maestro lo guidò nella cripta retta da sessantaquattro colonne e venti semicolonne in cotto, con capitelli molto antichi, alcuni dei quali addirittura bizantini. Qui l’altare ospitava le reliquie di Sant’Anselmo, davanti alle quali maestro e novizio pregarono a lungo.
Gilberto poté ammirare anche le reliquie dei Santi Sinesio e Teopompo che anni prima erano state portate in processione, salvando Modena e Nonantola dalla peste. Erano racchiuse in una cassetta lignea rivestita in lamina d’argento con il coperchio a tronco di piramide.
“Guarda questo reliquiario: è l’opera di un grande orefice longobardo.”
“È stupendo”.
“Osserva le figure dorate a sbalzo, sono raffinatissime.”
“È vero. Questo angelo, maestro, è bellissimo.”
Gilberto indicò la figura con un fiore nella mano destra, appoggiato al più centrale di tre archetti a tutto sesto che ornavano la fascia anteriore del reliquiario. Vi erano colonnine con i capitelli fogliati, che si ripetevano sul coperchio e sui lati lunghi dell’urna. Il ragazzo si soffermò rapito sui simboli dei quattro evangelisti: il vitello di Luca nell’arco di destra, il leone di Marco in quello di sinistra, l’angelo di Matteo e l’aquila di Giovanni sui lati corti.
“Ora ti mostrerò una cosa che ti lascerà di stucco” disse Anselmo, destandolo dai suoi pensieri.
“Qualcosa di più bello di questo?” chiese incredulo il ragazzo.
“Vieni con me.”
Gilberto seguì Anselmo verso una loggetta dove era conservato un prezioso reliquiario a forma di croce di foggia bizantina. Era di lamine d’argento con cinque piccoli smalti raffiguranti altrettanti santi greci.
“C’è la Santa Croce?” chiese Gilberto titubante.
“Esatto. È uno dei frammenti più grossi. Secondo la tradizione fu donata dal Papa a Sant’Anselmo”.
“Ne avevo sentito parlare ma a vederla fa tutto un altro effetto”.
“Puoi ben dirlo. Toccalo.”
“Posso?”
“Non aver paura.”
Tremante, Gilberto posò il palmo della mano destra sul reliquiario, assaporandone col tatto la superficie fredda e leggermente ruvida. Rimase così, in preghiera, per alcuni minuti. “Pulsa” disse quando ritrasse la mano. “Parla di sofferenza ma anche di qualcos’altro…”
“… di gioia e speranza?”
Gilberto annuì timidamente col capo e Anselmo sorrise al suo novicius, mostrando i denti che, nonostante l’età, biancheggiavano sani tra i fili della folta barba ingrigita.

G.S.


* brano tagliato dall'incipit della versione definitiva di Francigena - Novellario a.D. 1107
* immagine: Anselmo da Paule e il novizio Gilberto nel tratto di Michela Salotti e Franco Garioni

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