19 luglio 2007

Diabolus faber

Il sole stava calando dietro le montagne e Beatrice si sedette sul greto sassoso del Trebbia. Il suo sguardo vagò sul fiume, che scorreva incurante di lei, sulle cime che incoronavano silenti la valle e sugli animali al pascolo. Avvolta da quella natura placida, sentendosi protetta dalla rassicurante presenza del vicino borgo di Bobbio, la ragazza, dopo molti mesi, riuscì a riflettere.
La sua mente era un turbinio di immagini fosche: i mercenari che saccheggiavano il suo castello, il volto terrorizzato delle sue sorelle, quello di Lanfranco compito nell’abbraccio infido della morte, Ariprando che pendeva dalla forca con la lingua gonfia e il collo spezzato. Per quanto duri, non erano quei ricordi a opprimerla: ormai ci conviveva da mesi. Erano piuttosto le ombre scure che si annidavano nel profondo della sua coscienza a terrorizzarla. Esse emergevano nelle notti più buie come lupi bramosi e affamati, per ricordarle che era fuggita, li aveva abbandonati, che era colpevole di non essere morta con loro.
Nei suoi sogni, però, Arturo appariva sempre a salvarla, piombando sui suoi nemici trasfigurato di luce bianca, come un angelo guerriero. Brandiva quella strana spada corta e colpiva con furia.
Arturo. Cosa avrebbe fatto, una volta giunto a Roma? Se lo conosceva bene come credeva, il ragazzo sarebbe partito per la sua crociata. Lei lo avrebbe seguito? C’era posto per lei in Terrasanta? Desiderava vivere con lui, ormai lo aveva capito. Quello che non capiva e non osava scoprire era quali fossero le reali intenzioni del ragazzo. Quanto il suo amore per lei sarebbe stato più forte del suo onore.
L’onore. Aveva ucciso suo padre, che per difendere la parola data ai suoi alleati era stato tradito da tutti, trovandosi solo. Forse l’avrebbe privata anche dell’uomo che amava.
“Dio maledica l’onore!” imprecò la ragazza a denti stretti. Poi il suo sguardo si posò sul ponte, un drago di pietra pieno di gobbe, undici arcate diseguali che, secondo la leggenda, erano state costruite da Satana e dai suoi diavoli. Arturo le aveva raccontato la tradizione che voleva che fosse stato San Colombano in persona a ingannare il demonio per ottenere la ricostruzione del ponte, distrutto da una piena. Nell’ospitale dove alloggiavano aveva sentito una seconda versione, dove Satana approfittava della cupidigia dell’oste della locanda che ancora si ergeva al di là del fiume. Il malcapitato desiderava un ponte che unisse la sua taverna alla città per aumentare i propri guadagni e, tra una bevuta e l’altra, aveva dichiarato a un vecchio avventore di essere disposto a vendersi l’anima per quello. Neanche a dirlo, il vecchio altri non era che Belzebù, lesto a siglare il patto e costruire il ponte in una notte. Solo la scaltrezza della moglie dell’oste aveva evitato il peggio: la donna, astuta e timorata di Dio, aveva notato che la gente, passando sul ponte, si esprimeva con turpiloqui e bestemmie nel superarne faticosamente le gobbe. Non solo, molti passanti, superato il fiume, si abbandonavano all'alcool della trattoria dimenticando i doveri famigliari. Si era quindi rivolta al vescovo e, con uno stratagemma, aveva fatto ubriacare il demonio affinché tutto il clero e alcuni pii parrocchiani, potessero benedire il ponte e riempirlo di croci e statue per purificarlo. Al diavolo non era rimasta altra possibilità che fuggire maledicendo tutti.
Beatrice credeva poco ad entrambe le versioni che, pur diverse, esprimevano lo stesso concetto: un’opera del demonio era stata utilizzata per aiutare gli uomini grazie alla potenza di Dio. Attratta da quel pensiero di speranza si accinse ad attraversare il ponte. Voleva osservarlo meglio di come aveva fatto quando era giunta con Roberto ed Arturo, tre giorni prima. Quel manufatto la attirava e la inquietava, con la sua forma disarticolata come le dita nodose di un vecchio.
Dietro di lei le prime luci si accendevano nelle abitazioni di Bobbio, come fiammelle che presto la notte avrebbe vinto. Le ronde già cominciavano a pattugliare le mura, non sarebbe passato molto tempo prima della chiusura delle porte.
Doveva fare presto.
Mise il piede sul ponte e notò con un brivido che nessuno lo stava attraversando. Dalla locanda al di là del fiume, quella che forse era appartenuta all’incauto oste della tradizione, venivano canti di gozzoviglie. Le ombre della sera, proiettate dai parapetti diseguali e dalle croci, si allungavano su di lei come spettri. Sotto di lei il Trebbia schiumava rabbia, alzando nubi di goccioline che si fondevano con la nebbia che si alzava dal fiume.
Beatrice sobbalzò quando in un gorgo le parve di scorgere il ghigno beffardo di qualcosa che assomigliava a un folletto maligno.
“Non devo farmi condizionare” si disse, “è solo un ponte”.
Giunse a metà del percorso che le la nebbia ormai avvolgeva la bizzarra struttura. Erano giorni che, in quelle valli non avevano incontrato foschia, ed era strano che ci fosse una coltre così impenetrabile. Lì, in uno dei punti più bassi del passaggio, il rumore del torrente sembrava il respiro di un animale e l’odore umido della bruma penetrava le narici con crudeltà. Beatrice sapeva di dover tornare indietro. Non poteva certo ammirare la costruzione con una visibilità così ridotta e, anzi, restando lì rischiava di mettere un piede in fallo e cadere nel Trebbia. Ciononostante era incapace resistere al richiamo del ponte e non riusciva a costrastarlo.
Il tempo sembrava essersi fermato e anche il luogo dove si trovava pareva essere di un altro mondo. Nelle ombre della sera, tra le volute di nebbia, le sembrava di scorgere tutte le persone che lei aveva tradito.
Beatrice sobbalzò. Lanfranco la osservava da una delle gobbe del ponte, racchiuso in un involucro di foschia. Strabuzzò gli occhi alcune volte, ma la figura era sempre lì. Fece alcuni passi verso lo spettro. “Lanfranco, perdonami!”
Lui non rispose ma la sua espressione si intristì.
“Beatrice...” Da oltre il parapetto alla sua destra la chiamò una voce famigliare. La ragazza si affacciò e tra i gorghi del Trebbia il volto di suo padre apparve torvo. “Sono morto senza sepoltura!”
“Mioddio!” cantilenò lei tremante. Si voltò per correre verso Bobbio ma perse l’orientamento. La nebbia ormai copriva il ponte del diavolo come un sudario sporco. La città era celata alla sua vista e così la locanda che si trovava sull’altra sponda. Un sussurro nella notte la fece urlare di paura. “Mi hanno violentata fino ad uccidermi, per vendicarsi della tua fuga!” la rimproverò Cristala, apparendo per un istante all’ombra di una delle croci erette sul ponte per esorcizzarne la sinistra fama.
Beatrice non resse a quest’ultima apparizione e si mise a correre alla cieca, scivolò sulla pietra umidiccia del ponte e cadde rovinosamente. Restò lì, al buio, piangente.
“Non è colpa tua” le disse una voce suadente.
“Chi sei?”
“Sono il padrone di questo ponte.”
“Sei... Satana?”
“No” ridacchiò lui. “Satana non si abbassa a questi lavori di bassa manovalanza. Diciamo che sono un suo discepolo.”
“Cosa vuoi da me?!” Beatrice era talmente scossa dalle apparizioni che non si rendeva nemmeno conto della bizzarria della situazione.
“E’ la stessa domanda che volevo fare io. Sei salita sul mio ponte in una notte buia e nebbiosa. Il tuo cuore è pieno di dolore e, quindi, credo tu voglia qualche cosa da me.”
“Non voglio nulla. Dio mi proteggerà.”
“Non mi sembra che ultimamente sia stato troppo presente...” insinuò la voce.
“Adesso le cose sono cambiate.”
“Ah, certo, il giovane bretone. Come si chiama? Arturo, giusto? Proprio come il portatore di Excalibur. Lui però è dubbioso. Divide l’amore per te con quello per il Dio che ti ha tradita. Ti porterà via anche lui, per la sua sciocca guerra Santa!”
Sotto l’apparenza suadente, Beatrice, coglieva l’astio che l’entità provava mentre parlava. Era come un rumore di sottofondo, un suono catarroso a malapena celato dalla musicalità di quella voce.
“Lasciami stare!” urlò raggomitolandosi sulla pietra del ponte, resa umida dalla nebbia.
“Io ti ho solo mostrato i tuoi scheletri nell’armadio. Ora sta a te decidere. Vuoi attendere che il tuo bel cavaliere parta per Gerusalemme e ti proponga di chiuderti in un convento? Se glielo impedirai lui soffrirà e non sarete mai felici insieme. O preferisci aspettare che il vecchio tenti di abusare di te? Allora il ragazzo lo ucciderà e verrà forse condannato a morte per omicidio. Tu allora sarai la causa della loro morte, come di quella dei tuoi cari.”
“Cosa dovrei fare?” Beatrice piangeva copiosamente.
“Vattene, lontano da loro! Fuggi senza voltarti. Loro non meritano la tua sozza compagnia. Il tuo destino è espiare le tue colpe. Per te non ci sarà mai redenzione. No, no...”
Quel ringhioso anatema la colpì come una coltellata. La vista le si annebbiò per le lacrime mentre la nebbia, sempre più fitta, si popolava di creature orribili e mutevoli che davano forma ai suoi incubi di bambina: streghe e orchi la circondavano mostrando fauci fameliche pronte a sbranarla.
“Arturo!” gridò.
La voce aveva cessato di tentarla e il silenzio era calato sul ponte come un sudario. Anche il rumore del Trebbia era appena un sussurro attutito. Sola nel buio, Beatrice incominciò a singhiozzare. Con le mani sudate strinse il ciondolo di San Giovannino, che già una volta l’aveva aiutata.
Come in risposta al suo gesto di supplica, un canto cominciò a riempire il ponte, i cui contorni erano incerti schizzi nella nebbia. Sulle prime, pensò che si trattasse della corrente del fiume, poi si accorse che proveniva da un punto del ponte posto da qualche parte davanti a lei. Era una litania ancestrale che sembrava provenire dalla pietra stessa, composta da parole di una lingua antica come il mondo stesso. Seguendo la voce argentina, Beatrice giunse a una luminescenza che dominava una delle gobbe più irregolari del ponte. Una strana figura androgina, che sembrava fatta di vento, suonava un’arpa, anch’essa dall’aspetto leggero e immateriale.
“Chi sei?” chiese la ragazza speranzosa.
“Sono la signora di questo guado. Se lo vuoi, ti indicherò la via per uscire da questo banco di nebbia.”
“Ma... il diavolo?”.
“Lascia stare quel vanesio. Io esisto da secoli, vivevo qui ben prima che quell’essere e il suo Signore venissero precipitati dove è pianto e stridore dei denti (1). Se lui qui ha qualche potere, è perchè glielo permetto io.”
“Cosa devo fare?”
“Non ho la soluzione ai tuoi problemi. Posso però farti tornare in città, sarai poi tu a decidere cosa è meglio per te.”
“Grazie.”
“Non ringraziarmi. Per me è un piacere, non mi capita spesso di poter chiacchierare con la tua specie, da quando voi uomini non credete più in me. Ti basterà pronunciare tre volte il mio nome e io ti trarrò in salvo.”
La creatura pronunciò una parola suadente, in una lingua morta da tempo infinito.
Beatrice esitò per un istante. Molte leggende raccontavano che, pronunciando il nome di qualche creatura demoniaca, si rischiava di diventarne vassallo. D’altra parte, non aveva altre soluzioni: la nebbia era fittissima e non sembrava aver intenzione di diradarsi. Il freddo cominciava a penetrarle le membra, intorpidendogliele. Strinse più forte il ciondolo e disse il nome che l’essere le aveva suggerito. Poi lo ripeté una seconda volta.
“Brava. Ora pronuncialo l’ultima volta” la incalzò l’apparizione, celando a fatica una certa impazienza.
“Va bene....”
Beatrice aveva appena pronunciato la prima delle tre sillabe che componevano il nome, quando sentì un brontolìo scuotere il ponte. Per un attimo l’apparizione smise di suonare l’arpa e perse coesione. Ci fu un frenetico scalpiccio di zoccoli e una figura sfavillante piombò sul gigante di pietra squarciando la bruma con la sua spada dardeggiante. La sua armatura brillava di luce lunare e il suo candido mantello schiaffeggiava gli ultimi brandelli di foschia scoprendo un meraviglioso cielo stellato. Era Arturo come le appariva nei sogni, scintillante come un cielo stellato, mentre montava Morgen, che sembrava essa stessa un cavallo mitologico. Il suo sogno si era avverato.
Il canto argentino della Signora del Fiume trasfigurò nello stridulo grido di rabbia della voce che per prima l’aveva ammaliata. Con un’imprecazione volgarissima, il diavolo lasciò il ponte che aveva costruito decenni prima.
Il bianco cavaliere la osservò con occhi carichi di dolcezza, che brillavano da dietro il cimiero argentato, ornato da un pennacchio coloro della luce lunare. Il bel cavaliere rinfoderò la spada corta e solo allora Beatrice si accorse che era del tutto identica alla strana lama che Roberto di Puglia custodiva così gelosamente. Con un gesto di saluto il cavaliere si accomiatò da lei e se ne andò al galoppo.
La ragazza corse verso Bobbio ed entrò al sicuro delle mura pochi istanti prima che le pesanti porte di legno rinforzato venissero chiuse. Mentre percorreva i vicoli verso l’ospitale che divideva con i suoi compagni di viaggio, Beatrice meditava sul significato di quella sua strana visione. Era convinta che la forza che l’aveva salvata a Rocca Alta era intervenuta nuovamente per aiutarla. Era sicura che lo avesse fatto assumendo le sembianze di un cavaliere del tutto simile all’Arturo dei suoi sogni. Cosa voleva dire quella visione? Come mai il cavaliere non impugnava il solito gladio, dal quale non si separava mai, ma la strana e inquietante spada di Roberto? Queste cose, Beatrice le ignorava.


G.S.

(1) Matteo 25:26-27,30
(2) Per scoprire cosa accade a Beatrice, Arturo e Roberto, leggi Francigena - Novellario a.D. 1107

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